Ettore Bugatti aveva preso molto sul serio il Gran Premio dell’Automobil Club di Francia del 1924 che si svolgeva a Lione. Era infatti giunto sul posto con una squadra di nuovissime vetture da corsa, accompagnate da un notevole seguito: trenta tonnellate di parti di ricambio (caricate su tre vagoni ferroviari e due autocarri con rimorchio), tende di lusso con posti letto per 45 persone, docce e attrezzature da cucina. Senza contare la roulotte di famiglia a quattro ruote con pannelli intarsiati. Una simile carovana non poteva certo passare inosservata. Naturalmente furono soprattutto le 6 vetture da corsa (che giunsero con mezzi propri in fila indiana dietro all‘auto pilotata da Ettore Bugatti in persona) ad attrarre l’attenzione del pubblico.
Fu quello il debutto ufficiale della Bugatti Tipo 35, da molti considerata, per la purezza della linea, la Bugatti più bella. Dato che la Tipo 35 risultò anche meccanicamente assai migliore delle precedenti 8 cilindri proposte dalla Casa di Molsheim, si potrebbe dedurre che Ettore Bugatti avesse assunto nell’ultimo periodo tecnici particolarmente abili. Le cose non stanno invece così. Bugatti era solito servirsi di ingegneri e disegnatori tanto qualificati quanto capaci di tenersi in disparte. Le patron scarabocchiava in continuazione su pezzi di carta o sul rovescio di buste, che poi si ficcava in tasca: una fiumana di schizzi frettolosi. Il compito, a volte scoraggiante, del personale tecnico consisteva proprio nel trasformare questo mucchio di sgorbi in regolari disegni meccanici.
Molto tempo prima della progettazione al computer, Bugatti fu dunque capace di creare un disegno visivamente soddisfacente sotto qualunque prospettiva e nel quale forma e funzionalità erano strettamente connesse. La Tipo 35 è un ottimo esempio di questa filosofia progettuale: tutti gli elementi della carrozzeria e del telaio erano infatti fusi in un insieme omogeneo. Vista in pianta, la Tipo 35 presentava un’elegante linea aerodinamica, con il punto di massima larghezza in corrispondenza dell’abitacolo biposto. La carrozzeria si rastremava poi anteriormente fino allo stretto radiatore dalla caratteristica forma a ferro di cavallo. Lo stesso radiatore, visto in pianta, aveva una linea affusolata, come del resto la coda della vettura, molto corta e che, sempre vista in pianta, terminava a punta.
A parte i bracci anteriori e le molle della sospensione, il telaio era interamente nascosto dai pannelli della carrozzeria. I longheroni longitudinali non solo erano sagomati in modo da seguire le variazioni in larghezza della carrozzeria, ma avevano anche spessori diversi, passando dai 19 mm della parte anteriore ai 175 mm di quella centrale, concentrando così la robustezza nel punto più vitale. Le balestre anteriori, sporgenti, erano a foglie piatte, fissate strettamente insieme e agganciate posteriormente a un perno di articolazione invece che al tradizionale biscottino che avrebbe potuto permettere un gioco laterale. Inoltre, la molla a balestra passava attraverso il centro dell’assale tubolare anteriore che, grazie a una vera finezza tecnica, era a doppio diametro, pur essendo ricavato da un solo pezzo.
Un’altra soluzione della Tipo 35 era costituita dalle ruote in alluminio, a 8 razze larghe e piatte, con freni integrali a tamburo. Le ruote dimostrarono comunque di essere il tallone di Achille di questa vettura, benché Ettore Bugatti tentasse di incolpare soprattutto la Dunlop responsabile, a suo giudizio, di una vulcanizzazione non eseguita a dovere. I problemi alle ruote e ai pneumatici fecero sì che soltanto due Bugatti riuscissero a finire il GP di Francia del 1924, in 7° e in 8° posizione. Le ruote in alluminio della Bugatti avevano il grande vantaggio di un costo notevolmente inferiore rispetto a quelle a raggi. Inoltre non avevano bisogno di quella lunga e frustrante registrazione dei raggi necessaria per assicurare alla ruota una perfetta concentricità. Infine dovevano servire a conferire alla vettura una certa classe.
Bugatti adottò più di una volta soluzioni così poco ortodosse da rasentare l’eccentricità. Questa tendenza all’originalità è riscontrabile in molti dei suoi motori, nei quali i problemi della lubrificazione e del raffreddamento erano trattati con una certa noncuranza. Questo risultò evidente nel motore della Tipo 35 che derivava dal progetto del motore d’aeroplano U16, disegnato da Bugatti durante la prima Guerra Mondiale. Attratto dall’attualità che gli eventi bellici avevano attribuito alla nascente aviazione, Bugatti, a quei tempi a Parigi, aveva deciso di impegnarsi attivamente nel settore dei motori per aereo, concorrendo alle qualificazioni governative con due progetti: un 8 cilindri di 250 CV, la cui licenza di riproduzione fu poi attribuita in Francia alla Delaunay-Belleville e in Italia alla Diatto, e un 16 cilindri di 500 CV.
Questo secondo motore, ottenuto affiancando due bancate parallele di 8 cilindri ciascuna e collegando i 2 alberi a manovelle tramite ingranaggi, non suscitò l’interesse del governo francese. Fu così ceduto a quello americano, che ne incoraggiò una lunga sperimentazione presso la Duesenberg Motors Corp. Il fedele meccanico-scudiero Friderich fu inviato negli Stati Uniti per assistere la Duesenberg nei primi collaudi e nello sviluppo del progetto che, malgrado vistose modifiche introdotte dai tecnici americani per facilitarne la produzione su scala industriale e aumentarne la sicurezza di funzionamento (tra queste, la lubrificazione sotto pressione, alla quale Bugatti era contrario), ebbero esito negativo.
L’estremo individualismo che Bugatti riuscì a trasferire nel disegno meccanico delle proprie realizzazioni si espresse attraverso forme geometri che semplici, realizzabili con macchine utensili ad avanzamenti ortogonali. Creando in fabbrica uno straordinario clima d’orgoglio per il lavoro ben fatto e attribuendo a queste forme geometriche gli equilibri, i rapporti e il grado di finitura richiesti da una sua innegabile estetica industriale, Bugatti manifestò uno stile che fu talvolta contraddittorio con le leggi della aerodinamica. Credeva nella manualità con uno spirito da orafo che conosce l’importanza dei buoni utensili e, disdegnando le morse disponibili in commercio, giunse al punto di equipaggiare la fabbrica con morse di precisione, marcate Bugatti ed eseguite su suo disegno.
I suoi motori furono così la manifestazione ultima del compiacimento per la macchina rifinita a mano, e quando ancora vincevano le gare, come ha notato un critico inglese, potevano già esser considerati, da un punto di vista produttivo, vecchi di dieci anni. La contraddittoria esperienza con i motori d’aereo fu tuttavia alla base dei più conosciuti motori d’automobile della Bugatti. L’U16 rappresentò infatti, in un certo modo, il gigantesco prototipo dei motori a 8 cilindri in linea che culminarono con quello montato sulla Tipo 35. Il tema del motore a 8 cilindri era stato in realtà esplorato da Bugatti sin dal 1913, accoppiando in linea 2 motori della Tipo 13. La prima 8 cilindri posta in vendita e fatta scendere in gara con un certo successo fu però la 2 litri tipo 30 del 1922.
Nei Gran Premi, l’aggressività delle Fiat e delle Sunbeam sovralimentate mise però ben presto in difficoltà la Tipo 30 ad alimentazione atmosferica. Anche il tentativo di vestire l’8 cilindri con una carrozzeria avvolgente tipo ‘tank’, ispirata alle ricerche dell’amico Gabriel Voisin, si rivelò una delusione tecnica ed estetica. Il motore (che aveva solo 3 cuscinetti di banco per ben 8 cilindri) si rivelò troppo fragile; la carrozzeria mostrò poi la tendenza ad alzarsi in volo alla velocità massima.Bugatti si dedicò a un completo riesame del progetto, convincendosi della necessità di aggiungere al motore 2 supporti di banco e di rivedere lo schema della lubrificazione.
Per la Tipo 35 Bugatti impiegò così 5 cuscinetti a sfere e un elaborato albero composto, lubrificato da getti pressurizzati mediante una pompa a ingranaggi che aspirava l’olio da una coppa d’alluminio. La coppa, dotata di alettature di raffreddamento ricavate per fusione, era attraversata da tubi di rame destinati ad aumentare l’effetto raffreddante. Nell’albero motore non erano previste canalizzazioni per l’olio; in compenso l’olio iniettato sotto pressione era intrappolato da scanalature anulari e proiettato dalla forza centrifuga sui cuscinetti a sfere e a rulli. Il sistema a pompa immersa era pericolosamente condizionato dal sensibile spostamento dell’olio in curva. Lungo percorsi tortuosi i meccanici dovevano spesso controllare il manometro dell’olio. L’ago poteva improvvisamente scendere a zero; il meccanico doveva allora azionare la pompa a mano sistemata sulla parete dell’abitacolo per inviare nella coppa olio fresco dal serbatoio di riserva.
Il motore della Tipo 35 era composto da due blocchi (schema già usato sullo sfortunato U16) che avevano in comune il coperchio della distribuzione. Caratteristico di questo motore era anche l’ordine di accensione che, a partire dal cilindro anteriore, determinava lo strano ed esclusivo rumore di scarico. Le corte guide delle valvole avevano un contatto minimo con l’acqua, mentre le 8 candele montate nel metallo massiccio sul lato aspirazione della testa del cilindro non vedevano assolutamente l’acqua di raffreddamento. Il disegno della testata era tipico dell’anticonformismo tecnico di Ettore Bugatti. Infatti, egli era convinto che fosse molto più critica la fase di scarico piuttosto che quella d’aspirazione: di conseguenza, al contrario della pratica consueta, ogni cilindro della Tipo 35 aveva due piccole valvole di aspirazione e una unica valvola di scarico di dimensioni tali da richiedere una consistente modifica del la camera di combustione. I limiti di questa soluzione furono subito evidenti, tant’è che sulla successiva versione, la tipo 35B, fu necessario ricorrere alla sovralimentazione per ottenere un aumento di potenza.
Il compressore adottato fu un Roots, azionato alla stessa velocità del motore da un treno di ingranaggi: la miscela aria-benzina, aspirata da un carburatore Zenith verticale, veniva mandata, attraverso un manicotto di aspirazione separato riscaldato ad acqua, a ciascun blocco dei cilindri alla pressione di 0,68 atmosfere. Il motore della Tipo 35 da 2 litri senza compressore erogava circa 90 CV contro i 120 CV circa del motore con compressore. Tenere la Tipo 35 su di giri era un’ossessione di Ettore Bugatti. La frizione a dischi multipli a bagno d’olio, essendo di piccolo diametro, non creava infatti alcun ‘effetto volano’. Essa era sistemata all’interno dello stretto abitacolo, protetta solo da un sottile coperchio di alluminio destinato probabilmente a impedire che ci si infilassero dentro i piedi.
Riguardo al sistema di accensione, dietro la scatola angolare in alluminio delle camme, vi era un alloggiamento di bronzo contenente un ingranaggio riduttore che trasmetteva il movimento al magnete attraverso un giunto universale di cuoio: il coperchio del distributore del magnete (per 8 cilindri) sporgeva dal cruscotto della vettura. Un particolare ingegnoso dell’accensione era il meccanismo di anticipo e di ritardo controllato da una leva che lavorava in una fessura dentellata posta accanto al distributore. Ai loro tempi le Bugatti raggiungevano i 5500 giri/min, un regime alto per quei giorni. Oggi, grazie ai miglioramenti apportati ai materiali e ai lubrificanti, una Bugatti potrebbe raggiungere il regime di 7000 giri e una velocità massima di oltre 200 km/h. Il cambio a ingranaggi diritti era comandato da una leva a mano sul fianco destro della vettura. C’era un’ampia disponibilità di rapporti al ponte, la cui scelta dipendeva dal fatto che la Tipo 35 partecipasse a gare di velocità oppure a gare in salita.
La Tipo 35 e le versioni derivate erano così ben costruite che non avevano bisogno di guarnizioni; quelle a tenuta d’olio erano montate soltanto sugli alberi. Che la Tipo 35 fosse una vettura efficiente fu dimostrato dalla serie di successi ottenuta contro avversari accreditati nelle edizioni della Targa Florio svoltesi tra il 1925 e il 1929. La Targa Florio era una gara massacrante anche sul percorso utilizzato in quegli anni, il cosiddetto medio circuito delle Madonie (108 km). I concorrenti dovevano percorrere 5 giri del tormentato circuito, per un totale di 540 km, e affrontare centinaia di curve. Nel 1925 le principali rivali della Bugatti furono le Peugeot di 4 litri con distribuzione a camicia mobile. Il cammino di Meo Costantini verso la vittoria con la Tipo 35 fu notevolmente facilitato dalla sfortuna che colpì gli avversari.
La Targa Florio del 1926 fu caratterizzata dalla serrata lotta fra la Delage V12 sovralimentata e la Peugeot. Costantini e il suo compagno di squadra Minoia presero tuttavia rapidamente il comando della gara con le loro Bugatti che dimostrarono quanto la loro tenuta di strada fosse superiore a quella delle Delage. Il pioniere del giornalismo automobilistico W. F. Bradley ricordò così la gara: «Mentre Costantini sembrava essere una cosa sola con la sua vettura e mostrava poco sforzo nel piazzarla sempre dove voleva, frenando vigorosamente e fermamente, non sbandando mai e accelerando con rapidità, il suo avversario René Thomas passava imbronciato, di mostrando chiaramente di non essere soddisfatto della sua Delage, mentre Benoist lottava con il volante in un modo certo inusuale». Quando il conte Giulio Masetti, su Delage, si rovesciò e si uccise alle porte del villaggio di Caltavuturo, la squadra Delage si ritirò in segno di lutto, lasciando la vittoria a Costantini. Interessante notare che su 33 partenti 8 erano al volante di una Bugatti e che 7 di quelle Bugatti finirono la gara in tempo massimo insieme a 5 sole vetture delle altre marche.
L’ultima vittoria delle Bugatti alla Targa Florio avvenne nel 1929, quando fu scelto il percorso di Polizzi, un anello di 107,8 km. Le Bugatti di Divo e di Minoia giunsero al traguardo davanti alle Alla Romeo di Brilli Peri e di Campari. mentre nessun altro corridore riuscì a terminare la gara in tempo massimo. Nel 1930 l’Alfa Romeo di Achille Varzi, la celebre P2, spezzò l’egemonia delle Bugatti, giungendo al traguardo con poco più di 1 minuto di vantaggio (dopo quasi 7 ore di gara) sulla Bugatti di Chiron. Giù un anno prima, lo stesso Bugatti era stato costretto ad ammettere che le sue vetture, con distribuzione a un solo albero a camme in testa, erano giunte alla fine del loro sviluppo.
Proprio in quell’anno, una Miller Tipo 91, una vettura americana a trazione anteriore guidata da Léon Duray, aveva effettuato al GP di Monza il giro più veloce, alla media di 190 km/h. In quell’occasione, Bugatti aveva avuto modo di notare come il propulsore della Miller, un 8 cilindri in linea di 1500 cmc con 2 alberi a camme in testa (280 CV a 8500 giri/min, con compressore), presentasse più di una somiglianza con i suoi motori. Propose allora di scambiare tre delle sue nuove vetture Tipo 43 Gran Sport con due 91. Portate poi le vetture americane a Molsheim, le analizzò attentamente.
Un anno dopo, nel 1930, Bugatti lanciava la Tipo 50, una 5 litri con distribuzione bialbero che presentava una testa cilindri praticamente identica a quella montata sul motore della 91. Dotata di compressore e di 2 carburatori, la Tipo 50 introduceva un’altra primizia tecnica: l’uso di 2 valvole per cilindro a V, invece delle 3 verticali adottate dai motori Bugatti sino ad allora. Fu quella la linea di sviluppo che avrebbe condotto alla Tipo 57 messa a punto dal figlio Jean, la Bugatti a 2 alberi a camme in testa che pur essendo stata presentata nel 1934, in piena crisi economica ebbe un successo clamoroso. Ne furono costruiti circa 750 esemplari, la cifra più alta di tutta la produzione Bugatti. Questa vettura avrebbe dovuto inaugurare una nuova generazione di Bugatti, generazione che non vide mai la luce a causa dell’improvvisa morte di Jean, nell’agosto 1939, in seguito a un banale quanto tragico incidente durante un collaudo. La guerra e, nel 1947, la scomparsa di Ettore Bugatti, fecero il resto.
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